VIRGILIO SECONDO FIRMINO
«Ne “I magnasoéte” ha raccontato esattamente quello che ha vissuto qui. Negli anni con lui sono arrivati poeti, artisti e attori»
L’aria è fredda, pulita. Le correnti in arrivo dall’altopiano profumano di boschi e di neve. Firmino si muove tra campi e vigne con passo deciso.
Dice che le ginocchia da qualche tempo lo fanno soffrire, ma poco importa, domani andrà meglio.
Un po’ contadino e un po’ filosofo, il grande amico di Virgilio Scapin ha mani forti segnate dall’uso, lo sguardo diretto di chi guarda lontano e una gran voglia di raccontare una storia che ormai dalle nostre parti è diventata leggenda.
La leggenda di Virgilio e Firmino.
La leggenda del libraio-scrittore e del giovane, intraprendente contadino, che sul finire degli anni’50 casualmente s’incontrano, si scrutano, si riconoscono e non si lasciano più. «Un’amicizia durata una vita, che neanche la morte di Virgilio ha interrotto», spiega Firmino. «Noi lo sapevamo che sarebbe andata così. Io lavoro in mezzo alle vigne, poto, zappo, ogni tanto guardo verso la chiesetta di San Giorgio dove mi sono sposato nel ’64 con la Pina, e sento che lui è qui, attento a quello che faccio e a come lo faccio, curioso di tutto, capace di farsi scappare un mezzo sorriso quando capisce che anche per me sono arrivati gli ottanta e i salti mortali non li posso più fare».
Dietro una scorza ruvida, temprata da venti e tempeste, Firmino lascia intravedere un’emozione profonda e sincera.
«Faccio questo lavoro perché prima di me lo facevano mio papà, mio nonno e mio bisnonno. Lo faccio perché ormai mi è entrato nel sangue e ogni mattina quando mi alzo non vedo l’ora di ricominciare. Ma certe cose le ho apprezzate fino in fondo grazie a Virgilio. Avevo ventidue anni quando l’ho incontrato la prima volta. E lui ventisei.
Siamo cresciuti insieme. Eravamo diversi, ma avevamo la stessa energia e lo stesso entusiasmo. Lui guardava me e io guardavo lui. Subito non capivo perché un giovane così istruito e cittadino venisse a casa mia. Non capivo cosa cercasse. Vedevo che gli piacevano la stalla, le vigne, la caneva coi saladi tacà sui pali e alla fine mi sono reso conto che un modo di vivere che per me era normale, per lui era speciale. Questa consapevolezza mi ha regalato una grande forza. Lui dava a me e io davo a lui. E così è sempre stato».
La casa di campagna – col portico, la pergola, il fienile, la tezza, la legnaia, il pollaio, le gabbie dei conigli e la voliera dei torresani – testimonia un tempo che sembra essersi fermato agli inizi del secolo scorso.
Da ormai vent’anni la grande produzione vinicola di Firmino trova posto nell’ampia cantina costruita dall’altra parte della strada, a poca distanza dalla vecchia fattoria dei Miotti, ma lo spirito di Virgilio abita qui, in questa specie di grotta ruvida e grezza che lo ha visto trascorre nottate intere davanti a un bicchiere di vino, felice di conoscere e sperimentare una vita destinata a diventare il fertile humus della sua originale vena narrativa. Perché proprio in questa casa, in questa vigna, in questa collina bella e ventosa, il giovane libraio scoprì un mondo che rimasto intatto per duemila anni stava rapidamente sgretolandosi sotto l’urto di una civiltà frenetica e senza memoria.
Firmino raccontava e lui scriveva, deciso a fermare sulla carta la fatica, la tenacia, ma anche l’arguzia e la sapienza dell’universo contadino preindustriale prima che tutto crollasse, prima che quei ritmi e quei tempi abbandonassero per sempre i nostri broli e le nostre campagne.
Firmino mi fa strada. Passiamo sotto la pergola che si affaccia sulla pianura. Mi racconta che d’estate Virgilio si sedeva poco discosto dal muretto oltre il quale si apre uno splendido giro d’orizzonte. E se ne stava lì, in silenzio, a prendere i freschi, ad ascoltare le storie di una volta, a gustarsi una vita che per lui era già paradiso.
Firmino, è stata una lunga amicizia quella con Virgilio…
Potrei dire che la nostra amicizia è durata più di cinquant’anni, fino a quando un giorno lui ha chiuso gli occhi e se n’è andato. Ma non è così.
La mia storia con Virgilio non è mai finita. E non solo perché sono sicuro che questo colle lui non l’ha mai abbandonato, ma anche perché il suo libro più bello, “I magnasoéte”, dove racconta quello che ha visto e vissuto dalle nostre parti, rimarrà anche quando nessuno di noi ci sarà più.
Con quale frequenza veniva a trovarla?
Tre, quattro, cinque volte la settimana. Andava in giro per le vigne, s’infilava nella stalla, portava via il letame con la carriola, faceva disastri, ma si capiva che era felice. Io gli dicevo: Virgilio, lascia stare, ti sporchi, non sei abituato. Niente da fare, non ascoltava nessuno. Quassù si sentiva libero come un bambino.
Di che cosa parlavate?
Di solito preferiva ascoltare. Voleva che gli raccontassi di mio nonno Toni, del mio bisnonno, della gente del paese e delle contrade qui intorno.
Gli piacevano le storie di una volta, forse perché arrivavano da un mondo che lui pensava ormai scomparso e che invece qui continuava a vivere nonostante il progresso e le industrie che negli anni ‘60 e’70 spuntavano dappertutto come funghi.
Virgilio era uno scrittore. Parla-vate mai di questo?
Lui no, ero io che ogni tanto cercavo di portarlo sul discorso. Per provocarlo gli dicevo che avevo fatto le elementari in sette anni, che non sapevo scrivere, che facevo un sacco di errori. Virgilio rideva e rispondeva che, fra noi due, il vero artista ero io perché lavoravo i campi, facevo il vino, curavo la vigna, avevo memoria e sapevo raccontare le storie.
Tu racconta, diceva, che a scrivere ci penso io.
La sua cantina, Firmino, a un certo punto è diventata il punto di ritrovo anche di tanti amici di Virgilio. Com’è successo?
Non lo so nemmeno io. E’ stato come una specie di tam tam. All’inizio eravamo due o tre, poi siamo diventati cinque o sei, alla fine non li ho più contati. A Virgilio piaceva stare in compagnia, gli piaceva spartire con gli altri le cose belle che gli capitavano.
A un certo punto la sua amicizia mi è diventata indispensabile. Si lavorava di giorno e la sera si giocava a carte, si beveva un bicchiere di vino insieme, si parlava dei progressi della vigna, e non c’era nessuno più contento di noi.
Firmino, chi frequentava la cantina?
Gente semplice, del posto, ma anche gente da fuori molto conosciuta, come lo scultore Quagliato, l’avvocato Ugo Dal Lago, il dottor Dal Maso, il fotografo Barbieri, il musicista Bepi De Marzi, il poeta Bandini insieme alla moglie Luisa, il pittore Graziani, la cantante lirica Marcella Pobbe, Mario Rigoni Stern, Pieropan, Gemignani, Luigi Meneghello… potrei ricordarne tanti altri, ma di sicuro ne dimenticherei sempre qualcuno.
Tutti uomini di cultura…
Io non lo sapevo. Non conoscevo nessuno. Virgilio mi spiegava: vedi, quello è uno scultore, quell’altro un pittore, quell’altro ancora un musicista. Per me erano amici di Virgilio e per gli amici di Virgilio la caneva era sempre aperta.
Qualcuno l’ha colpita in modo particolare?
Neri Pozza. Mi piaceva come si guardava intorno, come osservava le cose. Chiedeva poco e bene. Con lui c’era sempre Lea Quaretti, una donna spiritosa e gentile.
Quando Virgilio è entrato nel cast di “Signori e signore” e del “Commissario Pepe”, in cantina sono arrivati anche nomi importanti del cinema italiano. E’ vero che una sera si è trovato fra le botti Ugo Tognazzi?
Non solo lui. In caneva ho trovato anche Monica Vitti, Pietro Germi, Laura Antonelli.
Era fatto così. Per lui il Colle di Santa Lucia e la mia cantina erano le porte del paradiso. E siccome era un uomo buono e generoso voleva condividere con tutti quello che gli sembrava un vero e proprio miracolo.
Avete mai parlato della vecchiaia?
Sì, certo. Adesso le racconto una cosa: lo vede quel piccolo rudere là in fondo, in mezzo al vigneto? Più di una volta Virgilio mi ha chiesto di metterlo in sesto. Fra qualche anno, mi diceva, lascio tutto e mi sistemo lì.
E quando si è ammalato?
Quando si è ammalato non ha mollato la presa. E’ venuto nel suo paradiso, con la sorella Donata e il marito Giorgio, fin quasi alla fine. Potrei dirle che Virgilio mi manca, che spesso mi capita di sognarlo, che il tempo un po’ ci ha fregati, eppure io sento che Virgilio non ha mai abbandonato il Colle di Santa Lucia.
Da quassù può vedere la sua Breganze, le sue vigne, può entrare nella vecchia caneva rimasta come lui l’ha lasciata e, quando anch’io me ne andrò, ci sarà sempre qualcuno da queste parti che racconterà la storia di due amici, uno contadino e l’altro scrittore, che quando andavano per i campi o giocavano a carte studiavano un modo per fare lo sgambetto alla morte. E, chi lo sa, potrebbero averlo anche trovato.•