LA PAGINA DEL BIBLIONAUTA
A cura della biblioteca Bertoliana, dedicata al libro “I Magnasoete” di Virgilio Scapin pubblicata dal “Giornale di Vicenza” si inserisce in quella rivisitazione postuma dell’opera dello scrittore vicentino auspicabilmente destinata a mantenerne vivo il ricordo.
Altri contributi potranno ancora venire dalla stessa Bertoliana cui Scapin aveva donato quello che aveva conservato del proprio archivio peraltro non particolarmente corposo. Infatti la catalogazione e la classificazione non sono mai rientrate nello stile dello scrittore che all’archivio cartaceo ha sempre preferito quello mentale.
Quanto poi all’idea che tutto quanto scritto di suo pugno potesse costituire oggetto di studio postumo anche questa non era consona alla sua modestia poco propensa a pensare che qualcuno un giorno si sarebbe occupato delle sue carte. Del resto a chi gli diceva: “Virgilio sei grande” rispondeva secco: “E grosso!”
Così non ha pensato a conservare le minute autografe di un medesimo testo in modo da permettere l’analisi dell’evoluzione dei suoi manoscritti prima di arrivare al testo finale. Certo nell’era del computer la possibilità e quindi l’interesse per questo studio sono completamente scomparsi. Nulla a che vedere, ad esempio, con le cinque minute successive intervallate dalle bozze a stampa con cui è possibile analizzare certi romanzi di Balzac.
Il fondo della Bertoliana contiene diverse cartelle dattiloscritte con correzioni autografe, ma ben poco che consenta di capire come il libraio di contrà Do Rode sia giunto di volta in volta alla battitura definitiva della cartella dattiloscritta.
E’ il caso appunto de “I Magnasoete” che Fernando Bandini ha sempre considerato il suo libro più bello e di cui egli scrisse la prefazione. Con la raccolta di racconti breganzesi Scapin è stato poi totalmente identificato avendo superato con quella spontanea freschezza di scrittura le opere successive frutto di più matura elaborazione letteraria. Ma il dattiloscritto della Bertolina presenta ugualmente un sicuro interesse documentale perché è quello che Scapin volle sottoporre alla lente di ingrandimento di un critico come Neri Pozza.
Evidentemente il precedente de “Il chierico provvisorio” non l’aveva demoralizzato. Nella bella intervista a Maurizia Veladiano pubblicata sul “Giornale di Vicenza” nel 2000, e ripubblicata in occasione della sua morte, aveva raccontato a proposito del suo primo romanzo: “Portai alcune pagine di quello che sarebbe poi diventato “Il chierico provvisorio” a Neri Pozza. Mi disse di darmi all’ippica. Un suggerimento che anziché abbattermi mi galvanizzò. Continuai a scrivere e, col mio malloppo sotto il braccio, mi presentai a Comisso. Stavolta andò meglio. Insieme bussammo alla porta di Longanesi. Lì trovammo anche Parise. Fu una rimpatriata coi fiocchi. Pubblicai il “Chierico”. Da allora non mi sono più fermato.”
Non si sa che cosa Neri abbia detto a proposito de “I Magnasoete”. Ci restano però le sue correzioni, tutte puntualmente accolte dall’autore, che segrete nelle pagine edite da Bertani e nella raffinata edizione fuori commercio con cui Ugo Dal lago volle rendere omaggio all’amico Virgilio, appaiono svelate nel dattiloscritto della Bertoliana.
Dalle modifiche di Neri Pozza emerge certamente uno stimolo, un incoraggiamento all’uso del dialetto la cui intrusione nella scrittura di Scapin per Bandini “risponde a una più immediata esigenza di fisicità che vuol dare il senso dei sapori e dei colori di quel mondo che egli si è proposto di raccontarci.”
Così ad esempio nel racconto “La Fiora” “le persone” sono diventate “le fémene”, gli “uccelli” “le séleghe”, i “militari” i “soldà”, l’”uccello” l’”osèlo”, “oliato” ”onto”. Oppure, nel racconto “La prete” il sacco che contiene il frumento macinato del contadino che “restava molo molo come la pansa di un uomo dopo una mattina a pico e baìle” ha sostituito la “pansa di un uomo pieno di fame” della versione originale. Ne “Il vedato” le “foje gialle” diventano “zale”, “la pianta che tira le sue ultime ciucià de vita” sostituisce quella che tira “le sue ultime succhiate di linfa”. Oppure “le visèle cadono per terra con i cai despetenà” e non “spettinati”.
Nel “Cucù cucù cucù congedo salta giù” il “caporale artigliere Pietro Colle era brao [e non “bravo”] da muli e da reclute”; le “mazzate” dei muli diventano “pache orbe”; “i continui su e zò dei carri” erano “continui spostamenti”; le “tonnellate di luàme” hanno sostituito le “tonnellate di merda”; e le “puttane che li mandavano a ramengo” hanno preso il posto delle “puttane che li disdegnavano”.
Meglio quindi per Neri Pozza “la bocca stropà” che “la bocca sigillata” o “remengo le vache” che “in mona le vache” oppure “un salado lungo mezo brasso” che “un salame di rispettabili proporzioni”.
Il “pane ingropà nel gargato” modifica il “pane intasato nel gargato” dell’alpino Pezzotta, il bergamasco che rimpiazza il caporale Colla nella stalla dei muli. Ed è lo stesso pane che “gli cade de rabalton nello stomaco” invece che “gli cade rombando”. Il cavallo “imbizzarrito” diventa “spaurà” ed il bergamasco quando si sveglia non “lancia un urlo” ma “tira un zigo”.
E ancora “ai dottori bisogna menarghe sempre rispeto” e non “riverenza”. E anche “dai Colle i medici non avevano mai fatto gnaro” suona meglio di “non erano mai stati di casa”.
Ma Neri Pozza aggiunge anche dell’altro alla semplice intrusione nell’impasto linguistico italiano-dialetto de “I Magnasoéte”. L’amicizia gli consente una perentoria raccomandazione che conclude la sua lettura del racconto “Cucù”: “Sta attento: culi, muli, merda, sudore, ecc. Non esagerare, perché il valore di questi nomi è nella misura in cui li usi (anche rompersi le balle). L’ortografia -gli accenti- va curata molto. Ne avrò messi un centinaio. Esistono i punti di domanda?”
Ecco quindi che dall’esame del dattiloscritto emerge anche la personalità del suo segreto esaminatore cui Virgilio si affidava senza timore. Non era forse lo stesso editore che in anteprima aveva letto Gadda, Montale, Sbarbaro, Luzi , Cardarelli, Bontempelli, Buzzati, Parise?
Con nessuno Pozza aveva rinunciato al suo intransigente rigore al punto che Buzzati l’aveva affettuosamente chiamato il suo “burbero editore” o addirittura “negriero”.
A tutti dispensava consigli e correzioni con quel comportamento ruvido e severo che corrispondeva al suo sguardo accigliato. Poteva sottrarvisi Scapin che al pari di Bandini godeva del privilegio di un’amicizia senza pari?
E sembra di rivederli quando la sera l’editore andava a trovarlo in Contrà Do Rode al termine di una giornata di lavoro.
Entrava in libreria e si sedeva sulla poltrona posta accanto al trespolo che costituiva la postazione del libraio. Ma era proprio l’ora in cui Virgilio iniziava le canoniche operazioni di chiusura. “Te sari sempre quando rivo mi!”. “Ma Neri, te rivi sempre quando xé ora de sarare.”
Pio Serafin
(Pio Serafin)