ORA CHE VIRGILIO SCAPIN E’ MORTO
Ora che Virgilio Scapin è morto, ci toccherà fare del nostro meglio per non rimproverargli di averci lasciati soli a ricordarlo.
( Marco Cavalli)
Ora che Virgilio Scapin è morto, ci toccherà fare del nostro meglio per non rimproverargli di averci lasciati soli a ricordarlo. È arduo scindere dalla persona cui vogliamo bene il bene che ci vogliamo attraverso di lei e che ce la rende così preziosa, così cara. Fortuna che Virgilio aveva il dono di farsi voler bene specialmente per i suoi difetti.
Se c’è una cosa che non gli si può rimproverare è appunto di aver fatto dei suoi difetti altrettante qualità. Non che gli sia costata una gran fatica: ha fatto fare tutto a noi.
Ma proprio per questo sentiamo di doverlo ringraziare: non lo incontreremo più uno che è riuscito come lui ad essere se stesso e insieme a darci l’illusione di averlo fabbricato secondo i nostri desideri.
La sua infinita pigrizia ci mancherà. Finalmente un uomo che si rifiutava di apparire migliore agli occhi di chiunque e che ci esortava con il suo comportamento a dimettere uno scrupolo tanto faticoso e molesto.
Erano molte le cose che Virgilio non sapeva fare e più numerose ancora quelle che non aveva alcuna voglia di imparare a fare, nemmeno se gliene capitava l’occasione. Che bisogno c’era, del resto, di imparare qualcosa che altri sapevano fare meglio di lui? La pigrizia cronica, non redimibile, non sa che farsene della mano di cui avrebbe bisogno. Non si nutre di buoni esempi, non scorge nella diversità dei caratteri un rimprovero rivolto al proprio.
Tollera i soccorsi che la sollevano appena dalla sua inerzia feconda, il tempo di rimpiangerla e di precipitarsi a riassaporarne i piaceri.
Ah, lo sguardo di Virgilio Scapin di fronte allo spettacolo del prossimo affaccendato intorno alle cose con cui ha stabilito una sorta di rapporto preferenziale!
Sfacciatamente inoperoso, ci osservava con interesse entomologico, noi esseri trafelati, giudiziosi, un poco umili, che credono alla fine del mondo e insieme discutono sul modo assennato e onesto di migliorarlo.
Quello sguardo presocratico diceva: può un’anima immortale essere competente in caduchi trionfi ed effimere letizie?
Virgilio non disponeva di una filosofia della vita e non ne sentiva la mancanza. A richiesta, dava a intendere di aver molto pensato intorno ai casi della commedia umana, ma in genere non si sentiva a casa sua nel pensiero.
Gli piaceva la letteratura, e quasi più da lettore che da scrittore. Di conseguenza non poteva non piacergli la vita, in particolare la vita degli altri, la vita di coloro che non vogliono o non possono accontentarsi di contemplarla, la vita di noi che lavoriamo, sposiamo, figliamo credendo con ciò di sconfiggere la paura di non vivere abbastanza, di non vivere di più.
Virgilio amava la vita di campagna, con i suoi ritmi stagionali, le sue pause dal lavoro che sono altrettanti lavori, la sua cultura georgica dei sensi, in testa il cibo e le bevande, in mezzo il sesso e in coda il sonno, una specie di presentimento e di esorcismo della morte.
Ha immortalato questa cultura nel libro suo più bello e più vero, I magnasoete, che ha la forma esteriore del romanzo ma il respiro e la luminosità di un affresco a tutta parete.
Ogni volta che torniamo ad aprire un suo libro siamo sicuri di ritrovare Virgilio e vorremmo che chi gli ha voluto bene non si dimenticasse del bene che Virgilio voleva alla letteratura.
Pensiamo con gratitudine al bene che Virgilio ha voluto a noi, alle nostre esistenze così distanti dalla sua, anche solo per poter fare della letteratura, e leggiamo, non smettiamo di leggere, i suoi libri. In essi ci incontriamo; noi tra di noi, e lui assieme a noi.
Marco Cavalli